Recensioni “Lascio che l’ombra”

Che fine ha fatto Aris? «Sono tre anni che non si sa nulla. All’improvviso era scomparso. Né morto né rapito. Solo uno dei numerosi casi che non lasciano tracce». Aris Dal Pozzo è (era) un docente di sociologia. Autore di numerosi saggi, aveva avuto anche qualche lampo di gloria, apparendo in un paio di trasmissioni televisive popolari. La sua scomparsa improvvisa aveva agitato il grande circo dell’informazione. Giornali, radio, televisioni… poi pian piano, l’attenzione era svanita. «Per disinteresse. Forse, perché l’avevano dimenticato ancora prima che sparisse».

Ed è proprio quando nessuno più pensa ad Aris, e gli amici sembrano infastiditi anche solo a parlarne, che Giulia comincia la sua ricerca. Insegue un’ipotesi tanto bizzarra d’aver persino ritegno ad esplicitarla. «Anzi, più che ipotesi, dovrei chiamarla fascinazione di un’idea», spiega. Lasciarsi avvincere nel seguire le tracce di questa fantasiosa prospettiva può essere il primo piacevolissimo modo di leggere «Lascio che l’ombra» (Manni, 128 pp., 14 euro), il nuovo romanzo di Paola Baratto. L’io narrante, Giulia Malavasi, è una scrittrice. Ricorda Aris come riservato e divertito vicino di casa, nel borgo d’origine della sua famiglia. Ha impresso nella mente un’immagine: da una finestra, vede Aris in disparte, allungato su una vecchia sdraio con un libro in mano, mentre alza gli occhi e la guarda, e avvicina l’indice alle labbra con fare complice. Silenzio…

Giulia torna al borgo della sua giovinezza, incontra gli amici di allora, riprende i contatti con il vecchio prof. Ottavio Console, anima intellettuale del paese e amico dello scomparso. Raccoglie tracce vaghe e sparse, sull’onda dell’ultima frase di Aris: «Giorno dopo giorno, mi sto perdendo». L’indagine prosegue per passi lenti, passaggi meditati fra testi di arcaica alchimia e ricordi più recenti, tenendo il lettore in sospeso fino all’ultima pagina. Già basterebbe per essere soddisfatti. Ma il romanzo contiene assai di più.

Come sempre accade nei suoi scritti, Paola Baratto offre letture profonde e trasversali dei temi che aggrovigliano il nostro mondo: dai sogni giovanili naufragati de «La cruna del lago» alla società del precariato con «Carne della mia carne», dall’affresco sulla crisi dell’Europa e il suo medioevo prossimo venturo in «Di carta e di luce», al valore del tempo con «Solo pioggia e jazz». Dalle sue pagine, ora, emerge un’impietosa disamina del ruolo dell’intellettuale, rimpicciolito fino a svanire. O resta prigioniero della sua biblioteca di provincia, come il prof. Console, oppure, com’è accaduto allo scomparso Aris, guadagna qualche momento di notorietà apparendo in tv, ma ne esce spaesato, stravolto. Diventa semplice pretesto per volgari messinscene. Suscita più indifferenza e insofferenza che incomprensione. Quasi inutile chiedersi se la ragione stia nell’isolamento dello studioso o nella superficialità del mondo che lo circonda. L’insignificanza è il destino segnato dell’intellettuale. E si dilegua, infine, nel più diffuso alone dell’umana incomprensione. L’incomunicabilità è il tema profondo che emerge indagando sulla scomparsa di Aris. Neppure delle persone più vicine, quelle che ci sembrano più in sintonia, riusciamo a cogliere appieno la radice dei loro sentimenti. Ognuno incompreso al punto da scomparire ai propri occhi.

«Lascio che l’ombra» di Paola Baratto è ricco e complesso, ed in ugual misura denso ed essenziale. Sono passati quasi dieci anni dall’ultimo romanzo della scrittrice bresciana. Era «Saluti dall’esilio», parlava dell’intreccio tra verità e menzogna. Poi sono seguite due raccolte di racconti: «Giardini d’inverno» e «Tra nevi ingenue». Il passaggio alla pagina breve l’ha portata a levigare ancor di più la sua scrittura: una disciplina rigorosa che si nota anche ora, mentre ha ripreso la via del romanzo. Ogni singolo elemento è scelto con cura, affinché nulla di superfluo appesantisca parole e idee. La narrazione acquisisce una sua voce, limpida e convincente. E anche l’architettura del libro ha una struttura che porta il lettore ad interrogarsi, fino alla rivelazione finale.

(Claudio Baroni – Giornale di Brescia)

(occhiello: Un “cold case” si affaccia nell’ultimo mirabile libro di Paola Baratto)
Le parole vanno suonate. Scrivere è un mestiere di riaccordatura di lemmi logorati dall’uso comune. Un lavoro che richiede applicazione religiosa, monacale. Ma scrivere è un lavoro che si fa anche con il corpo – bisogna spalare, forbire, spurgare – per ritrovare i principi attivi essenziali delle parole, che sono fatte di senso e sonorità (tonalità, altezze, cromie…) perdute. Il motto dechirichiano rimane illuminante: occorre essere originari piuttosto che originali, puntando alla gioielleria di precisione dello stile e a una riflessione vigile sulla vita per cogliere l’altissima dignità dell’uomo e della sua condizione di creatura fragile e dolente.
Paola Baratto è scrittrice appartata e dalla voce cristallina, che ha imboccato un suo percorso di solitudine e distinzione. I suoi libri ci parlano delle pieghe intime dell’anima, ma sono anche un precitato della contemporaneità. “Lascio che l’ombra” (Manni, pp. 127, euro 14,00), ultima sua fatica, abita quella zona franca che sta tra realtà e l’apologo. Il tempo è il nostro, lo spazio rimanda ad un borgo viciniore alla città, di ruralità english, ma questo è solo un vezzo. Aris Dal Pozzo, esimio cattedratico di Antropologia e sociologia, uomo stimato e che gode di unanime consenso, è scomparso da tre anni. Le indagini si sono arenate, il caso si è sgonfiato sui media, nulla fa presagire una morte violenta con occultamento di cadavere, non rimane che pensare ad un allontanamento volontario con annesso diritto all’oblio, in ossequio a sua maestà la privacy. Ma se così fosse, perché? Per quale ragione uno decide di fuggire dal suo habitat affettivo e residenziale, di tagliare ponti e radici con il passato, senza lasciare traccia?
Giulia Malavasi, scrittrice e io narrante, non si arrende all’archiviazione e decide di intraprendere una sua indagine privata alla ricerca di un indizio, di un messaggio in bottiglia che consegni la chiave del mistero. E così interroga gli amici, si introduce nottetempo nella casa di Dal Pozzo, fruga nella biblioteca, si imbatte in testi di alchimisti del ‘500, azzarda ipotesi suggestive che la scienza aborre e cui solo la letteratura può donare la verità attraverso la metafora: negli ultimi tempi, forse era solo un’impressione, Dal Pozzo era rimpicciolito. Come se fosse vittima di una metamorfosi riduttiva (il Gregor Samsa di Kafka diventa l’insetto che altri volevano vedere in lui; in “Tre millimetri al giorno”, formidabile romanzo di Richard Matheson, adattato anche al cinema, il protagonista Scott Carrey, che si abbassa di statura in seguito all’esposizione di radiazioni atomiche, soffre il senso di inadeguatezza di fronte ad un mondo sempre più invasivo e pericoloso…).
Raccontare di più sarebbe fare un torto. Baratto non dà la soluzione, mantiene viva l’ambiguità e alla fine spunta un manoscritto autografo che restituisce la complessità del viluppo di necessità e destino e che costituisce, tra malinconie e vocazioni all’esilio, una parabola sul declino della figura dell’intellettuale, destinato all’invisibilità, al vanishing in una società anemica di valori come la nostra, dominata dall’audience deficiente, dai blogger saccenti, dalle élites dei mediocri, in cui l’egemonia della sottocultura è sovran(ist)a. Su questo scenario l’ironia della Baratto è affilatissima. E il libro risulta ossigenante, si legge in beata apnea.

(Nino Dolfo – Corriere della Sera Brescia)

È incentrato su una scomparsa il nuovo (nono) libro della bresciana Paola Baratto «Lascio che l’ombra», ma quell’anima noir che il romanzo lascia presagire all’inizio si espande in una più accorta indagine esistenziale, una trattazione sul mistero del vivere e sull’incomprensione.
La scrittrice Giulia Malavasi ritorna al paese d’origine sulle tracce di Aris Dal Pozzo, professore e saggista scomparso da tre anni. Da un giorno all’altro l’uomo è sparito senza salutare nessuno, volatilizzato in un nulla sul quale incespica ogni possibile spiegazione. Giulia lo conosceva sin da quando era bambina, ne aveva seguito le evoluzioni intellettuali, decifrato le mutazioni umorali e sublimato il senso di una spiritualità indecisa, forse sgomenta di fronte alle contingenze d’una esistenza sempre più fatua e improduttiva. Il mistero è per lei ragione intuitiva pressante, un voler aprire porte sull’ignoto. Non esita perciò ad introdursi nella villa disabitata del professore attigua alla casa in cui risiedeva da bambina, esplorare il burrone del silenzio, la stanza di Aris e respirare i suoi pensieri, sgrovigliare le sue idee, entrare nell’intimo di una dimensione che all’arte sembrava avesse destinato ogni battito. Sfuggendo alle premure dei parenti che vorrebbero recluderla in una sorta di abbraccio di benvenuta, Giulia, grazie alle discussioni con il prof. Console, amico di Aris, pure lui saggista, si addentra nell’ambito degli argomenti di cui Aris si stava occupando per scrivere un libro su un personaggio del Cinquecento in cui l’alchimia aveva un ruolo importante, così come per Aris era importante un libro sulla malinconia con in copertina un’immagine della «Melencolia I» di Dürer. Tra le pagine di quel prezioso, antico, amato libro Giulia troverà qualcosa di molto importante. Potrà così addentrarsi nel pensiero di un uomo che forse ha voluto conoscere il più a fondo possibile il disagio del vivere dopo averne sperimentato la drammaticità. Giulia e il prof. Console ne vivranno le scansioni così come farà il lettore, conquistato da uno spirito inquieto che la Baratto traduce in splendido linguaggio letterario che somma le infinite «disistime» della vita, la «tossicità del rancore», tutto quel male estremo che ci «rimpicciolisce» finché «a poco a poco si scompare anche ai propri occhi». Un romanzo di rara forza emotiva.

(Francesco Mannoni – L’Eco di Bergamo)

Apparire.
Brillare alla luce dei riflettori del chiassoso circo mediatico dentro un mondo invaso da parole.
O invece lasciare ad altri questo quotidiano «borbottio» compulsivo, conforme. E scomparire…
«Lascio che l’ombra» (edito per le insegne di Manni, 127 pagine al prezzo di 14 euro), il nuovo romanzo firmato da Paola Baratto, punta al cuore di una contemporaneità logorata, vuota, disillusa. E lo fa con la «spiazzante lucidità» di una scrittura esatta, tersa, perfetta nell’inseguire il mistero e interrogare il presente.
Da tre anni nulla più si sa di Aris Dal Pozzo, docente di antropologia, saggista, romanziere.
L’intellettuale è scomparso. Il caso è ormai archiviato.
Soltanto l’anziano sodale Ottavio Console, letterato erudito, ricco d’infiniti libri rari, non si dà pace; anche la giovane scrittrice Giulia, inquieta e decisa, non s’arrende: vuole investigare, anche da sola.
Mossa da un’oscura fantasia sul destino di Aris, ritorna all’antico borgo di campagna dove – in alto, accanto alla Rocca cadente – la sua casa di famiglia confina con la villa, deserta, dello scomparso.
Pietre e muffe. È un malinconico autunno di nebbia ad accompagnare Giulia che indaga, incontra e ricorda: lei, fanciulla curiosa, mai sazia di conoscenza; lui – due lauree, rigore e talento – intellettuale apprezzato («ci illuminava di orgoglio riflesso»).
Poi, inaspettata, l’immagine triste di lui – in pubblico o in tivu – stranamente dimesso, lo sguardo opaco, come mortificato.
Un «ometto» dentro la scintillante gabbia dello show dell’intrattenimento (culturale?).
«Rimpicciolito». Quasi come quei personaggi strani, colpiti da un’incredibile «miniaturizzazione» progressiva; figure e storie uscite dai testi su cui Aris lavorava prima della scomparsa, attratto dalla questione esoterica, dall’alchimia… O dalla Malinconia, come titola quello specialissimo libro con l’incisione di Dürer in copertina; sudate carte, ma insieme anche insoliti scritti, segreti e sofferti…
Tracce e indizi che la sapienza narrativa di Paola Baratto affida ad un gioco di specchi dove ci si può perdere; tra idee e parole che non spariscono, ma cantano in silenzio.

(Piera Maculotti – Bresciaoggi)

Il mistero della scomparsa di un uomo, Aris Dal Pozzo, un importante professore di antropologia e sociologia, è all’origine dell’indagine condotta tre anni più tardi da una scrittrice, Giulia. La donna non si dà pace e decide così di interrogare i vecchi amici di Aris, nell’antico villaggio di campagna dove abitava l’uomo e dove anche lei ha una casa.
Paola Baratto ha scritto un avvincente noir, in cui però sembra di poter intravedere, al di sotto della trama, una precisa allusione simbolica: la perdita di visibilità dell’intellettuale nel mondo di oggi.

(Roberto Carnera – Famiglia Cristiana)

Dopo aver letto, a poche pagine dall’inizio, il corsivo che sembra far da controcanto alla narrazione, corri avanti a verificare se nel testo ne compaiono altri, e vedi che parecchi dei capitoli sono conclusi da altri, analoghi brani. Scacci la tentazione di leggerli di seguito, anche se è lì che senti che il libro ti tocca più da vicino. Non salti dunque da corsivo a corsivo scavalcando le pagine in tondo, e la tua rinuncia è presto compensata dalla presa che l’intreccio via via fa su di te. Anche la vicenda di Aris ti riguarda, in qualche modo: il suo scrivere appartato, il suo non adeguarsi alle logiche del pensiero unico che governano la comunicazione, senza per questo trincerarsi nell’identità dello studioso accademicamente affermato ma mantenendo invece la disponibilità a misurarsi con l’indifferenza e l’incomprensione, la superficialità sbrigativa della fiera del libro che si anima solo per l’ospite di sicuro richiamo, la pantomima straniante del talk show spacciato per dibattito.

La cultura di Aristide Dal Pozzo, di antropologo del contemporaneo, di sociologo che non s’accontenta di statistiche, non può bastare a preservarlo dalla frustrazione, non gli offre strumenti in grado di smontare l’imperativo alla semplificazione volgare cui ogni discorso sembra ormai doversi ridurre per avere una sia pur effimera cittadinanza. Ma lui non è uno di quegli scrittori che se la raccontano – come del resto la narratrice, che si è messa sulle sue tracce dopo che, tre anni prima, è scomparso all’improvviso senza lasciare traccia. Anche lei, Giulia Malavasi, testardamente, appassionatamente dedita a quel «mestiere, già di per sé così vago» che è lo scrivere, e intollerante dei consigli di conoscenti ben intenzionati: «scrivi, ma per te stessa», oppure «fatti un blog». Il fatto è che si scrive sempre per gli altri, per «trovare la propria umanità e il proprio legame con gli altri esseri umani», stando a Paul Auster (e non diversamente si esprimeva Umberto Eco: «Io non sono uno di quei cattivi scrittori che dicono di scrivere solo per se stessi. C’è una sola cosa che si scrive per se stessi, ed è la lista della spesa. E quando hai comperato le cose che dovevi, puoi distruggerla. (…) Ogni altra cosa che scrivi, la scrivi per dire qualcosa a qualcuno»). Aris non era certo di diverso parere, e così Giulia. Ma dove sono finiti, gli altri? Non solo quelli che amano esclusivamente intrattenere ed essere intrattenuti, ma anche coloro che sembrano voler tenere alta la bandiera dell’impegno e dunque nobilmente, sdegnosamente si pongono il fatidico quesito: «Verrebbe da chiedersi dove sono finiti gli intellettuali». Il ritaglio di giornale che riportava queste parole, proferite da un ex ministro della Cultura, è stato, chissà quando, sottolineato da Aris e costellato di punti esclamativi tracciati con tanta rabbia da aver rotto la carta. Rabbia contro la protervia di un establishment politico e culturale che gli intellettuali non li sente e non li vuol sentire, che li dimentica ancor prima che scompaiano, che ipocritamente rovescia su di loro la propria cattiva – e ormai esilissima – coscienza, salvo denunciare la voglia di visibilità degli intellettuali che prendono la parola, o il loro esser costituzionalmente bastian contrari, anime più o meno belle e comunque fuori dal mondo nel momento in cui non rinunciano ad assumere pubblicamente le movenze di quello che si chiamava, e non si può chiamare altrimenti, che pensiero critico, come quello praticato da Aris. Un pensiero sempre teso, indipendentemente dal suo oggetto, «a delineare con spiazzante lucidità gli scenari presenti».

Un intellettuale del genere, se scompare, lascia un vuoto al quale non ci si può rassegnare, tanto più se la propria aspirazione è quella di continuare a scrivere, come fa Giulia, o a studiare per comprendere un passato che, per il fatto di essere locale, non necessariamente è già in partenza terreno di inevitabili quanto facili mitologie localiste, il passato che ha appunto coltivato per tutta la vita l’ormai attempato professor Console.

Sono loro due a cercarlo ancora, Aris, a spiarne tracce labili, al limite dell’inconsistenza, nelle pagine da lui frequentate nel periodo precedente la propria sparizione. Tracce dalle quali sembra emergere un filo di speranza, per quanto paradossale, sostanzialmente inconciliabile con il solido razionalismo del professore così come con il laico disincanto della scrittrice, e pure capace non semplicemente di incuriosire, ma di affascinare. Senonché, ancor prima dello sguardo pensoso della figura che campeggia nell’incisione di Dürer riportata sulla copertina di un noto saggio sulla melanconia – l’ultimo libro, forse, nel quale Aris ha cercato risposte – sono quei corsivi a dire l’irrimediabilità della situazione nella quale lui si è sentito sprofondare, e insieme la progressiva, lucida, autodistruttiva adesione alla domanda non detta, ma di fatto rivolta con perentorietà sprezzante agli intellettuali, di farsi da parte, di tacere. Meglio: di sparire.

«Giorno dopo giorno, mi sto perdendo…», lo si è sentito dire dopo la deludente presentazione di un suo libro. Perché lui, lo scopriamo alla fine – senza sorprendercene, perché lo sentivamo, in qualche modo – è l’autore di quelle pagine brevi e dense dalle quali fin dall’inizio ci siamo sentiti raggiunti. Pagine che non riguardano solo l’intellettuale, si badi, ma chiunque non si rassegni alla cancellazione tendenziale dell’individualità, della specificità che fa di ognuno un essere unico, uguale e diverso dagli altri, e come tale capace di opporre resistenza all’omologazione, di negarsi al «minuetto di banalità» nel quale siamo immersi, alla chiacchiera assordante dei media come a quella ubiquitaria e pervasiva dei social; di conservare quel quid che non accetta di sciogliersi nella dilagante, acefala schiera di figuranti della spettacolare messinscena planetaria del consumo. Per cui «si preferisce scappare, non esserci. (…) E ci si nasconde, iniziando così a scomparire», da un presente che appare sempre più «un luogo inospitale», inevitabilmente fonte di «disarmonie con chi ci circonda». Del resto, «Non parlare di sé rende invisibili». È così che «Arriva il momento in cui si fatica a riconoscersi (…) E a poco a poco si scompare anche ai propri occhi».

Un pamphlet, dunque, sia pure in forma narrativa, quello di Paola Baratto, un generoso, rinnovato Plaidoyer pour les intellectuels di sartriana memoria? No, un romanzo. Un romanzo, che fonda certamente la sua capacità di coinvolgere il lettore sull’originalità della vicenda e la radicalità del giudizio, ma deriva la sua forza persuasiva dalla qualità di una scrittura ricca dell’esperienza dei romanzi pubblicati (otto, prima di questo) e passata negli ultimi anni attraverso il filtro dei brevi, essenziali racconti di “Giardini d’inverno” e “Tra nevi ingenue”.

(Carlo Simoni – secondorizzonte.it)

È incentrato su una scomparsa il nuovo (nono) libro della bresciana Paola Baratto «Lascio che l’ombra» (Manni), ma quell’anima noir che il romanzo lascia presagire all’inizio si espande in una più accorta indagine esistenziale, una trattazione sul mistero del vivere e sull’incomprensione, sull’essere concezione e negazione di sé stessi.
La scrittrice Giulia Malavasi ritorna al paese d’origine sulle tracce di Aris Dal Pozzo, professore e saggista scomparso da tre anni. Da un giorno all’altro l’uomo che Giulia conosceva bene sin da quando era bambina, ne aveva seguito le evoluzioni intellettuali e sublimato il senso di una spiritualità indecisa, è sparito, dissolto. Non esita perciò ad introdursi nella villa disabitata del professore attigua alla casa in cui risiedeva da bambina, esplorare la stanza di Aris e respirare i suoi pensieri, sgrovigliare le sue idee, entrare nell’intimo di una dimensione che all’arte sembrava avesse destinato ogni battito. Sfuggendo alle premure dei parenti, Giulia, grazie alle discussioni con il prof. Console, amico dello scomparso, si addentra negli argomenti di cui Aris si stava occupando per scrivere un libro su un personaggio del Cinquecento in cui l’alchimia aveva un ruolo importante. E tra le pagine di un suo antico, amato libro troverà qualcosa di molto importante. Giulia e vivranno le scansioni della scoperta così come farà il lettore, conquistato da uno spirito inquieto che la Baratto traduce in splendido linguaggio letterario che somma le infinite «disistime» della vita, la «tossicità del rancore», tutto quel male estremo che ci «rimpicciolisce». Un ottimo romanzo di rara forza emotiva.

(Francesco Mannoni – L’Unione Sarda)

Aris Dal Pozzo, docente di Antropologia e Sociologia nonché autore di numerose opere letterarie, è scomparso da tre anni. Tre anni durante i quali nessuno l’ha più visto né sentito. Tre anni nei quali alcuna informazione, traccia, segnale a lui relativa è giunta. Le ricerche non hanno condotto ad alcun risultato degno di nota e, così come i media col passare del tempo fanno calare l’attenzione sul caso, anche la collettività inizia a vedere sbiadita la propria memoria. Ma per Giulia è diverso. Dopo tre anni dalla sparizione dell’uomo decide di tornare nell’antico borgo rurale dell’infanzia, nella vecchia casa di famiglia che, neanche a farlo apposta, confina con quella di Aris. Giulia arriva col treno del pomeriggio e percorre il viale che porta al borgo, inerpicandosi lungo la sua leggera salita, lungo il pendio abitato del colle. Pochissime persone vi abitano ancora, famiglie che si tramandano terreni e storie di generazione in generazione o, per lo più, persone che tornano al borgo solo per le vacanze estive. Il chiavistello della porta fa fatica a scorrere e a ogni movimento brusco genera un rumore fortissimo che rimbomba nel vuoto della casa, una villetta fatta di pietra e a forma di elle, con veranda e giardino, e rievoca alla sua memoria i ricordi di un’infanzia lontana fatta di feste, castagnate d’ottobre e pranzi in famiglia. Accanto, poco distante vi è la casa di Aris. Giulia la osserva, scruta la ghiaia, le aiuole coperte di edera, il portico e soprattutto la zona di servizio con piante profumate, la rimessa per gli attrezzi, i fili dove stendere i panni, in cui Aris a volte si andava a nascondere. Giulia si è fatta un’idea circa la sparizione di Aris Da Pozzo, un’idea strana e forse folle alla quale non riesce a non pensare. Ed è per questo che è tornata al borgo: per investigare. Ed è sempre per questo che resta a fissare la casa dell’uomo mentre i pensieri assumono forma…

Lascio che l’ombra è il nuovo romanzo di Paola Baratto, giornalista e scrittrice bresciana. L’autrice compone una storia colma di mistero e colpi di scena che sanno attirare l’attenzione del lettore pagina dopo pagina, trascinandolo attraverso un’investigazione privata, fantasiosa e lungimirante e per strade inesplorate come quella dei testi di alchimisti del Cinquecento, aspetto questo che incuriosisce e crea un’atmosfera misteriosa dal sapore antico. Giulia, la protagonista, è una scrittrice e nel piccolo borgo compie la sua ricerca privata incontrando i vecchi amici di Aris, in particolare il vecchio professor Console il quale, a suo modo, ha elaborato una teoria altrettanto singolare circa la sparizione di Aris. Il lettore ha modo di viaggiare nelle pagine della Baratto grazie a una voce narrante personale, riconoscibile e coinvolgente che sa raccontare senza svelare troppo, mantenendo il segreto e il mistero di questa storia noir fino all’ultimo, in un crescendo di enfasi e mistero che rende la lettura interessante e scorrevole. La scrittura è sapiente e ricercata, intessuta di parole preziose ed espressioni accurate. Lo stile elaborato ma mai pedante arricchisce questo romanzo costituendo un perfetto rivestimento per una storia che è capace sì di intrattenere ma anche di far riflettere sulla natura umana e sulla difficoltà di trovare il proprio posto nel mondo. Un romanzo, dunque, avvincente che coniuga mistero e parola, suspense e letterarietà. Pagine che meritano di essere lette.

(Claudio Volpe – Il Mangialibri)

“L’ultima volta in cui l’ho incontrato, Aris mi aveva detto: “Giorno dopo giorno, mi sto perdendo”.”
Inizia così questo libro di Paola Baratto. Un libro leggero, breve, troppo, di cui avrei letto volentieri altre pagine.
Mi sono piaciuti molto alcuni personaggi, in particolare Aris, protagonista per l’assenza. Scomparso tre anni prima senza lasciare traccia, nessuno lo ha più visto né sentito.
Giulia torna a casa, si confronta con Console, vecchio amico suo e dello scomparso, e scopre che entrambi nutrono lo stesso sospetto.
È possibile che una persona sparisca pian piano, che perda pezzi di sé o che si rimpicciolisca al punto di non esistere più?
Un’ipotesi affascinante che non viene mai del tutto esplicitata, ma fortemente suggerita.
Mi è piaciuto molto anche per la realtà di alcuni dialoghi: con gli occhi di poi spesso raccontiamo cose che non erano e ne tacciamo altre, non perché la memoria abbellisca i ricordi, ma per apparire noi migliori o più interessanti, anche se di interessante non abbiamo niente. La banalità di alcune storie non sarebbe male in sé, se i protagonisti non volessero a tutti i costi reclamarne l’unicità.
“Non è colpa sua. Tutti quelli che raccontano trombastorie sono persuasi dell’unicità dei loro orgasmi.”
Un racconto interessante, in cui si parla anche di libri, lettura e letteratura.
“Leggevamo molto e disordinatamente, prese da una frenesia di conoscenza. Libro dopo libro assecondavamo l’appetito giovanile di sapere. Ma restavamo digiune di consapevolezza.”
Giulia e Console tenteranno di ricostruire gli ultimi mesi di Aris, cercheranno indizi tra le pagine di testi antichi e, all’apparenza, poco significativi. Spereranno e resteranno delusi. E il lettore con loro, ché una risposta vera c’è e non c’è.
Con la sparizione di Aris, sparisce anche, metaforicamente, l’ultimo intellettuale di una volta, per lasciare il posto a quello attuale, che per essere visibile deve essere veloce, il tempo di una rapida risposta in tv o di una battuta su Twitter. Non vi è la possibilità di argomentare e spiegare al grande pubblico: il grande pubblico, se vorrà, leggerà il libro, ma per far sì che lo legga bisogno conquistarlo e per conquistarlo è necessario rinnegare un po’ se stessi, perdersi giorno dopo giorno.
Una scrittura fluida e diretta. La protagonista, Giulia, oscilla tra sarcasmo, cinismo e realismo. Le persone scambiano i suoi silenzi per capacità di ascolto, quando semplicemente non ha voglia di parlare o non sa che cosa rispondere.
“Così rinserrata in un silenzio quasi autistico, scambiato per predisposizione all’ascolto.”
“Lascio che l’ombra” è un libro che si legge in fretta, ma che si abbandona lentamente. A me ha colpito per la psicologia dei personaggi, il loro sentirsi fuori posto pur essendo al posto giusto. Il non capire e non essere capiti, ma far finta di niente, cosa che facciamo tutti, di continuo. Mi è piaciuto l’adattamento, necessario nelle relazioni, senza sopprime il giudizio continuo nei confronti di tutti. Perché tutti pensiamo qualcosa di ogni persona con cui ci relazioniamo, ma lo stare in relazione significa anche adattarsi e nascondere pensieri, pezzi di noi stessi.
“L’impressione di essere fuori posto in ogni ambiente e consesso umano, di riscontrare sempre più spesso disarmonie con chi ci circonda, è una condizione cui prima o poi ci si abitua.
Il disagio dei primi tempi vien meno. Sentirsi estranei non ci amareggia più.
Arriva il momento in cui si abbandona il terreno prima ancora che inizi lo scontro, immaginando che in ogni caso la discussione sarebbe inutile.
Non è nemmeno più così rassicurante trovare affinità con qualcuno, perché non si riesce a non pensare che presto una discordanza insanabile salterà fuori, intaccando il resto.
Solo la solitudine dei luoghi offre il sollievo di un’amicizia.
E, in quei luoghi, si finisce per scomparire.”
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(Daniela – Chili di libri)