Recensioni “Giardini d’inverno”

Tersa. Forse è l’aggettivo che Edoardo userebbe per l’atmosfera dei «Giardini d’inverno» di Paola Baratto. Iridescente avrebbe una sfumatura di artificioso. Intima sarebbe quasi scontata e non darebbe conto della profondità di personaggi e storie. Inquietante sarebbe uno dei vocaboli usurati «che lasciano ormai vedere la trama», come dice appunto Edoardo, convinto poi che radioso si addice solo al volto d’una donna. Tersa, invece,pone la dovuta attenzione al finale, che sorprende con un raggio di luce ad accendere la ragnatela lasciata dall’ultima sassata che incrina la lastra del tinello, nella casa di vetro che la scrittrice si è costruita. E dove torneremo…

Edoardo è uno dei personaggi di «Giardini d’inverno» (Manni editore, 73 pagine, 12 euro). Lo si incontra mentre chiude definitivamente il libro che stava leggendo appena è arrivato al punto in cui lo scrittore definiva «azzurro» il cielo di Provenza. Non poteva sopportarlo: è troppo, per lui che colleziona parole desuete. Belle, pertinenti, precise. La raccolta minuziosa di Edoardo è forse la chiave di lettura di questa preziosa raccolta di racconti che sulla scrittura – curata, levigata, cesellata, distillata – gioca tutta la sua sfida.

Il rispetto per le parole giunge al punto di decidere di non spezzarne neppure una, nemmeno per andare a capo come vorrebbe la giustezza tipografica.
Qui, forse, sta la porta d’accesso ai giardini d’inverno di Paola Baratto, che torna a pubblicare dopo una lunga pausa interrotta solo dagli articoli scritti su queste pagine e dalla rubrica che guida i nostri lettori alla scoperta degli angoli nascosti di Brescia. Mai più romanzi? Paola, alla domanda, sorrideva e sviava il discorso. E lasciava tutti a chiedersi dove si fosse inabissata la vena narrativa che ci aveva portati nell’Irlanda de «La cruna del lago», tra le nebbie di «Finisterre», sull’isola di «Solo pioggia e jazz», e poi nelle sconvolgenti pagine di «Di carta e di luce», «Carne della mia carne» e di «Saluti dall’esilio». Ogni suo romanzo è un viaggio nelle rughe più inquietanti del nostro tempo: i sogni giovanili, i mali che attraversano la Vecchia Europa, la precarietà, le apparenze e gli inganni di un mondo costruito sulla finzione…
«Giardini d’inverno» riprende la grande matassa di quei ragionamenti, ma la dipana con stile, linguaggio e regia diversi. Il passo scelto per il nuovo viaggio è quello del racconto. Con il rigore e la precisione affinata da una maturità di scrittura che rivela l’incessante lavorìo di ricerca. La raccolta è costruita come un trittico che solo una volta dispiegato mostra tutta la logica della sua narrazione. Tre sezioni e quattro personaggi per ognuna. A legare il tutto, filo nel labirinto, citazioni di Charles Baudelaire.
Collezionismi: la donna che registra il passaggio delle stagioni, Edoardo che cataloga parole, Irma che conserva sassi come fossero l’anima delle persone da ricordare… fino a restare «senza l’ombra di un ricordo». E Biagio che per ogni mese sceglie una casa da abitare con la fantasia.

Altrimondi. Il professore ama Parigi ma in riva alla Senna non troverà il sogno che inseguiva. Bianca «entra» nei quadri per cercare emozioni e sentimenti. Madame vestita come all’inizio del Novecento esce dal metrò e trascina le sue lunghe gonne nel fango dei viali. Fausto ama il «velo d’incanto» della nebbia di pianura.
La voce delle cose mute: Giulia sa ascoltare il silenzio, Adele fotografa le ombre, Gabriele scrive liriche su valigie, vasi e oggetti. E infine Martino, che osserva ogni cosa attraverso i suoi vetri colorati. La sua diventa una casa di vetro, guarda il mondo da una serra multicolore. Chi vi entra si sente in dovere di dare un giudizio, di sollevare un’obiezione… Ma alla fine Martino – l’artista, la scrittrice – vede accendersi di luce anche il vetro incrinato dalla sassata nell’alba algida e silente di un Capodanno.
Nel giardino d’inverno, quando fuori si gela, si raccolgono le cose care: piante, vasi, fiori secchi, ceste di vimini. Ci si crea un rifugio intimo e protetto. Disincantato, nostalgico, malinconico. Sì, forse anche questi aggettivi poteva cogliere Edoardo per la sua collezione. Noi, senza alcuna pretesa, abbiamo scelto «terso». Luce sulle vetrate nei corti pomeriggi d’inverno. Guardi fuori e per un attimo pensi di aver colto una piega della vita.

(Claudio Baroni – Giornale di Brescia)

Nelle case i giardini d’inverno sono spazi abitativi extraterritoriali di ristoro e benessere, che creano ponti là dove ci sono muri. Approdi e derive metafisiche.Non è un caso che Roland Barthes (La camera chiara) dica cose profondissime sul rapporto tra realtà e verità della fotografia, partendo da un’immagine della madre-bambina ambientata proprio in un giardino d’inverno in cui l’ombra filtrata dalla camera oscura diventa luminosa grazie all’affetto e al ragionamento di un ricordo-emozione.
«Giardini d’inverno» (Manni editore, pp.73, euro 12) è l’ultimo libro della bresciana Paola Baratto.
Dodici racconti che hanno la nitidezza di un frame, che coniuga l’istante e la durata. Un coro di personaggi che posseggono la fiera alterità dei dropouts recalcitranti alla banalità del sentire comune. Una dozzina di anime, collegate dalla filigrana di citazioni di Baudelaire, che si smarcano dallo standard rivelando disappartenenze, sensibilità percettive non omologabili, sentimenti non corrosi dalle abitudini normative.

C’è una donna che colleziona stagioni «trascorse e poi ritrovate, come un indumento vissuto che nel guardaroba resiste all’avvicendarsi delle mode». Edoardo, che ha il gusto della parola pura ed evocante, chiude perentoriamente un libro in cui il cielo di Provenza viene definito «azzurro» e basta. Un aggettivo troppo frusto e scontato per alludere ad un significato ancora pulsante. Irma conserva i sassi che, come reliquie, condensano nella loro simbolica diversità minerale le opere e i giorni delle persone defunte. Biagio sceglie ogni mese una casa dove abitare con la sua fantasia sostenibile.

Un professore, che tutti chiamavano Parigi perché è là che vuole andare a vivere, sulla Senna, si troverà messo fuori gioco dal tempo perduto.

Bianca entra nei quadri per ritrovare quell’universo rasserenante fatto a sua misura e somiglianza. Fatta eccezione per le tele di Hopper in cui uomini e donne sono «disanimati da un senso di provvisorietà senza soluzione» e guardano fuori dalla finestra. Madame, pittata nella sua eleganza anacronistica, scompare lasciando dietro di sé un mistero non svelato. Fausto adora la nebbia della pianura che nella opacità della visione lo sottrae alla necessità dell’evidenza critica.

E ancora, Giulia che ausculta rumori e musiche del silenzio, preferendo restare «al limitare delle parole». Adele che fotografa le ombre, perché alla gente non piace riconoscersi in uno specchio. Gabriele che scrive liriche sulle nature morte (valige, occhiali?) per cogliere l’assenza umana che sta loro attorno. Infine Martino, che dalla sua casa di vetro fatta di cocci colorati contempla il mondo fino ad essere sorpreso dall’irrompere della luce in seguito ad una sassata.

Paola Baratto con una prosa poetica, levigata e distillata, propone un affresco di figure che sanno parlarci della complessità sommersa della vita.

(Nino Dolfo – Corriere della Sera Brescia)

Rare, rarefatte atmosfere disegnate da parole misurate, precise nel cogliere – con nitidezza perfetta – infinite sfumature.

E’ l’ultima pubblicazione della giornalista e scrittrice Paola Baratto: «Giardini d’inverno» (Manni, pp.73, 12 euro) evocativo rimando a quello spazio sospeso tra il rumore del fuori e un silenzio più vero, dentro.

Dodici racconti brevi, densi e lievi, suddivisi in tre atti di una speciale commedia umana. Sono «Collezionismi» diversi, le prime quattro avventure; c’è chi va tra le vie della città a caccia di segni o sentori di ciò che – nei «Cambi di stagione» – non cambia.

C’è Edoardo che – allergico alla banalità dell’automatismo linguistico e all’astrazione retorica – ama e cura solo le parole belle. Irma sa che le pietre hanno un cuore e le colleziona con alterno amore. Biagio raccoglie case: le incontra, una al mese, le ammira e rimira, ne scruta i segreti, poi torna al suo bilocale.

Sogni. Sguardi sul mondo, e su «Altrimondi», come titola la seconda sezione. Altri personaggi: estrosi e misteriosi come una Madame nel metrò o l’indimenticabile Bianca che «visita i quadri», quasi tutti (Monet in primis, ma Hopper mai); entra nei dipinti, ne respira il respiro, s’incanta.

Il Prof. adora Paris: l’Altrove sempre sognato, pro/gettato… e poi…

Anche Fausto ha il suo Oltre: l’opaco, impalpabile «limbo» della piatta pianura col «velo d’incanto», candido, della nebbia… Poetiche suggestioni che – tra ombre e nubi, gesti, voci e luci – tornano anche nell’ultimo atto: «La lingua delle cose mute» (sempre Baudelaire, insuperabile nel mettere insieme fiori e male, affanni cupi e campi sereni).

Alla fine ecco il matto Martino, l’artista che si costruisce una casa tutta di vetro. Trasparente come il silenzio. Luminosa, sincera e variopinta come uno specchio. Proprio come la penna sapiente di Paola Baratto.

(Piera Maculotti – Bresciaoggi)

Più che personaggi, stati d’animo. Non importa quanto le loro vicende possano essere verosimili, quanto sfiorino l’idea dell’immaginazione o si avvicinino alla linea della realtà. In “Giardini d’inverno” (Manni), Paola Baratto crea 12 storie, apparentemente separate: i suoi sono “personaggi di racconti”, che usano come metafora lo spazio tra la casa e l’esterno, che protegge ed è protetto, colmato di fiori.
In quello che da reale diviene luogo della psiche umana, c’è chi colleziona sassi, perché ricordano rimorsi e persone, chi ama i termini desueti e si chiede perché le persone scelgano con più cura le parole degli abiti, chi ama circondarsi di silenzi o contemplare la nebbia. Collezionismi, Altrimondi e La lingua delle cose mute, sono le tre sfumature di questo piccolo gioiello narrativo, dove fanno da colonna sonora gli abbracci tra sensazioni delle rime di Baudelaire. Racconto dopo racconto, insieme ad Edoardo, Giulia, Madame e gli altri, incontriamo un nostro ricordo o sensazione che abbiamo provato almeno una volta in vita. Come l’attaccarsi ad un oggetto perché ricorda qualcosa o qualcuno, l’affezionarsi agli edifici al punto da sentirli come nostri, l’idealizzare un luogo per poi rimaner delusi al momento della visita, l’immergersi in un’opera d’arte, giudicare una persona apparentemente diversa senza chiedersi “cosa veda lei” o, ancora, cercare di comprendere, negli opposti e nelle ombre che non esisterebbero senza luce, noi e il mondo.

(Marielle Cortès – L’Unione Sarda)

I “Giardini d’inverno” sono oasi dello spirito, sensazioni che si aprono come ventagli nel vagheggiare del tempo e delle illusioni umane. Suddivisi in tre parti (Collezionismi, Altrimondi, La lingua delle cose mute) i dodici brevi racconti che compongono questo delizioso volumetto della giornalista e scrittrice Paola Baratto (Manni editore, 73 pp.) (autrice anche di vari romanzi di successo, tra i quali ricordiamo “Saluti dall’esilio”), sono un concentrato di lirismo puro. La poeticità intensa dei racconti che narrano intuizioni e impressioni più che fatti, sono una sorta di registrazione dell’intimo d’individui che vivono dimensioni in cui la mania è persuasiva compagna; alterchi e sensibilità racchiuse in istantanee che hanno l’immediatezza dell’attimo scolpito con rara perfezione stilistica, in un crescendo che di pagina in pagina configura urgenze e contingenze connesse alle più strane e indiscrete necessità umane. Una donna vista di sfuggita, un colore banale, un sassolino conservato come memoria legata a una persona o la nebbia che diventa gelatina di sogni nella quale si disfano confuse proiezioni, sono sfondo a tante piccole alienazioni, fissazioni strane che però rendono l’esistenza più interessante.
I giardini d’inverno sono territori neutri ove vivono le speranze che i personaggi dei dodici racconti (numero che richiama i dodici apostoli vaganti nella smarrita ideologia del presente che faticano a convertire gli uomini alla realtà delle cose) attraversano con automatismi obbligati. Ma questo non li distoglie dal loro mondo, da ciò che hanno creato nei loro cuori, fortezze inespugnabili in cui i giardini d’inverno sono le intime percezioni di una natura che ignora le stagioni e prospera anche sotto il sole artificiale. Paola Baratto ha una capacità istintiva nel condensare in brevi brani vite intere.
Le basta un sussurro, un movimento, un colpo d’occhio e d’incanto schiude le propaggini di un’anima. E dentro quest’anima ci fa leggere la storia dell’umanità compresa nei suoi riti minimi e nelle sue ingorde proiezioni. Il Giardino d’inverno accoglie tutto e tutto ripara, e se all’ombra dell’orchidea s’insinua il rovo o il filo inquinante dell’erbaccia, siamo nella normalità: anche i segreti hanno delle crepe, affilature che svelano tracce, e su di esse Paola Baratto progetta con una scrittura trepida e avvolgente i sentieri dell’essere e li percorre con la partecipe e disincantata complicità della poesia

(Francesco Mannoni – La Sicilia e La Provincia)

Da dove viene il senso di leggerezza – e di conforto, vorrei dire: di quieta fiducia – che ci resta dopo la lettura di questi racconti, come dopo una passeggiata. breve e ristoratrice? Non certo dal fatto che si tratti di una lettura scacciapensieri. E perché conserviamo una simpatia solidale con i personaggi che abbiamo incontrato? Personaggi che sono lontanissimi dai modelli di vincenti che molto spesso ci vengono proposti più o meno esplicitamente come termini di identificazione, e che dichiarano questa loro estraneità sin dai nomi che portano, nomi comuni (Nino, Irma, Bianca, Fausto, Giulia, Adele) o che suonano addirittura un po’ prosaici, fuoricorso (Biagio, Martino, Gabriele), quasi se ne fosse voluto sottolineare la non eccezionalità. Uomini e donne miti, modesti, e tuttavia animati da una ferma consapevolezza della propria diversità e della necessità di proteggerla. Con discrezione. Ecco la parola: sembrano personaggi ritagliati da un libro, recensito da “La Repubblica” qualche mese fa ma non ancora tradotto in italiano: La discrétion, di Pierre Zaoui, pubblicato dalle parigine Édition Autrement. Vi si parla di persone che praticano “una forma felice e necessaria di resistenza. (…) lontana dalla dissimulazione, dal calcolo prudente, o dalla paura d’esser vista, l’anima discreta offre una giusta presenza al mondo”. La discrezione: “l’esperienza di un tempo modesto che basta a se stesso”. Non una qualità da esibire né un atteggiamento che possa generalizzarsi, dal momento che si tratta di un andar controcorrente: “la nostra modernità – sostiene Zaoui – non pare caratterizzarsi solo per una lotta sfrenata per il riconoscimento e la visibilità, ma in pari grado per una lotta sotterranea, più calma ma molto tenace, per l’anonimato e l’invisibilità.” Un fare sotterraneo, deciso ma tranquillo, non appariscente: non sono avventure eclatanti quelle che i personaggi di Giardini d’inverno vivono. Vicende, piuttosto, nelle quali si rapprende uno stile di vita in grado di farsi testimonianza che contraddice la banalità dei discorsi e il conformismo dei comportamenti, e per questo suscita timore. Perché “ciò che è banale ha l’unico merito di essere rassicurante”, e ciò che non lo è non solo può inquietare, ma suscitare osservazioni sarcastiche, sdegnose prese di distanza, o addirittura reazioni ostili (la signora che veste “come se fosse sgusciata da una cartolina seppiata degli inizi del Novecento” “non dovrebbero lasciarla andare in giro”, e l’uomo che si costruisce una casa piena di finestre e lucernari, vedrà la sua “casa di vetro” presa a sassate).
Man mano che si procede nella lettura si comincia a sentire una medesima aria circolare fra le pagine dei racconti che si susseguono, un significato che li accomuna, un gioco di rimandi che li tiene saldamente insieme, senza che si ricorra all’espediente ormai collaudato di far incontrare, a un certo punto, tutti i personaggi, come avviene in tanti film, francesi soprattutto. I protagonisti di Giardini d’inverno marciano ognuno per la propria strada. Solo in un paio di casi si incrociano, comparendo uno nel racconto dell’altro ma senza interferire più di tanto. Per il resto, si attengono a una coerenza che ogni inizio di racconto ci presenta come un tratto di lungo periodo, da tempo praticata. Non enunciata, da chi scrive, ma che sta al lettore intuire dai gesti e dalle parole, poche, dei personaggi.
Si tratta di “collezionisti” nei quattro racconti della prima sezione, di sognatori o abitanti di “altrimondi” nella seconda, di ascoltatori attenti della “lingua delle cose mute” nell’ultima. Tutta gente che nello scegliere tra l’avere e l’essere non ha dubbi. Non occorre possederle le case in cui ci piacerebbe abitare: basta assegnare ad ognuna il mese in cui preferiremmo farlo. E sono del tutto immateriali i pezzi che insegue la collezionista di stagioni, riconoscendole nel suono struggente dei garriti delle rondini, in profumi e odori evanescenti, nella sensazione tattile del velluto di muschio che avvolge il tronco di una pianta: non è la contemplazione della caducità che la donna coltiva, ma proprio il suo opposto. Lei, delle stagioni cerca “quello che non cambia”: nel loro divenire scova l’essere. L’essere di un tempo ciclico, e già questo rappresenta a ben vedere uno scarto, non una contestazione ma uno scostamento netto rispetto al tempo rettilineo che imperativamente ci domina, sin nel profondo.
Così come dilagante e contagioso è l’uso distratto, omologato delle parole: occorre riconoscerne la fisionomia, verificarne la rispondenza con noi stessi, apprezzarne addirittura la carica erotica per farne oggetto di collezione, e in questo modo contrastarne l’usura. Ma è altrettanto possibile e motivato raccogliere invece sassi, uno diverso dall’altro e anche per questo suscettibili di farsi segno della unicità di ognuno di noi, memoria inconfondibile di chi se n’è andato. È difficile non ritrovare in questa sensibilità, che ravvede significati umani anche nell’inorganico, una suggestione analoga a quella che doveva aver mosso l’anonimo collezionista di sabbia – sabbia grigia del Balaton, bianchissima del Siam, rossa del Senegal – la cui opera Italo Calvino aveva visto a Parigi (e dove se no… Parigi è punto di riferimento ricorrente nei racconti di cui parliamo). Un collezionista, quello, che è inevitabile sentire fratello della Irma che raccoglie sassi. Un collezionista, spiega Calvino, che “sapeva dove voleva arrivare: forse proprio ad allontanare da sé il frastuono delle sensazioni deformanti e aggressive, il vento confuso del vissuto”.
Ma in fondo non è proprio questo l’orizzonte non solo di Cuore di pietre, ma anche degli altri racconti di Paola Baratto? Non è questo il filo che ne fa un unico romanzo? “Come nelle poesie e nelle canzoni le rime scandiscono il ritmo, così nelle narrazioni in prosa ci sono eventi che rimano fra loro”: è lo stesso Calvino a ricordarcelo in una delle sue Lezioni, quella sulla rapidità.
Senza trascurare altri fili, certamente. Situazioni che tornano e via via si precisano nella ricchezza dei loro significati. Il silenzio innanzitutto. Non un vuoto, tutt’altro, essendo che “se la musica è ordita da innumerevoli combinazioni di note, lo stesso vale per il silenzio” (parole che sembrano quelle di Mario Brunello, nel suo trattatello recentemente dedicato, appunto, al silenzio).
Basta saperlo ascoltare, il silenzio. Sarà allora possibile rendersi conto che “anche il più piccolo frutto maturo possiede un suo relativo fragore, nell’istante in cui spacca la buccia”, e che non c’è “nulla di più variegato e multiforme del tacere degli esseri umani” (mi torna in mente quell’aneddoto dell’incontro fra Borges, ormai cieco, e Calvino, che la reverenza per il maestro rende più taciturno del solito: “L’ho riconosciuto dal suo silenzio”, risponde più tardi Borges a chi gli domanda come ha fatto a capire che fra le persone che erano andate a visitarlo c’era anche lo scrittore italiano).
Il silenzio, parente stretto della trasparenza (“il vetro è trasparente come il silenzio, tutto lo attraversa”), ma anche delle ombre, “quel risvolto inseparabile dai corpi, dalle cose”, presenza silenziosa, “gemello muto” degli esseri viventi. È fotografando le ombre dei suoi clienti che Adele ne coglie i sentimenti inespressi, o inconfessabili, così come è guardando attraverso la nebbia che avvolge la sua casa di pianura che Fausto impara a “leggere tra le righe delle frasi dette per calcolo, per compiacenza, per ipocrisia”.
Un altro tratto comune ai protagonisti: la calma, la lentezza. Di fronte ai capolavori pittorici conservati nei musei Bianca – che non è una monaca, ma un’”ispettrice in ambito turistico”, costretta dal suo lavoro “a spostarsi da una città all’altra”- si concedeva d’indugiare”, “si godeva la pausa”, e uscita dal museo amava il “passeggio senza meta”, la flânerie, ma anche il sostare “dietro le vetrine scintillanti d’una brasserie, ch’era poi, ugualmente, una forma di flânerie sedentaria”. È questa propensione alla lentezza che le permette di abitare i quadri che ama, di “inoltrarsi dentro una dimensione temporale cristallizzata, esclusa dall’ingranaggio inarrestabile dello scorrere”.
Non solo le opere d’arte, però, rappresentano interlocutori essenziali. Anche le cose suscitano una pietas che sa interpretare la loro “lingua muta”, e fra di esse soprattutto gli “oggetti vecchi, ossidati, opachi” (come capitava a Brecht: “Fra tutti gli oggetti i più cari”, notava, “sono per me quelli usati. Storti agli orli e ammaccati…): “gli utensili dozzinali d’uso quotidiano” per i quali Gabriele sente “una specie di pena” e che esita a buttar via, che raccoglie addirittura quando li vede abbandonati vicino a un cassonetto dei rifiuti, “relitti domestici senza più domus”.
Motivi e atteggiamenti che, si diceva, danno unità ai dodici racconti (solo dodici purtroppo), ma che non si limitano a questo. O meglio: se questo è il loro effetto è perché non sono che gli aspetti di una stessa critica. Una critica che non si vuol argomentare, che resta lontanissima da ogni intento di persuasione e ancor meno di polemica. Si direbbe che l’autrice condivida la propensione di Adele, la “fotografa delle ombre”, che “da qualche tempo disertava la chiarezza e preferiva lasciare ad altri l’incombenza spugnosa delle spiegazioni”. Non è lo sguardo che si accanisce criticamente quello che si è indotti da questa lettura a rivolgere al nostro mondo. È invece uno sguardo che sa cogliere qui dove siamo l’altrove di cui avvertiamo un bisogno vitale. Un altrove in cui regnano – ripetiamolo – il silenzio, la trasparenza, le ombre, la lentezza: basta pensarne il contrario e si ricavano, per contrasto, i caratteri del mondo in cui viviamo: il rumore e la chiacchiera, l’ opacità e insieme la luce cruda e abbagliante che illumina le merci (cioè tutto, tendenzialmente), la velocità ossessiva, la non affezione per le cose che usiamo e gettiamo.
Uno sguardo capace dunque di pazienza e fermezza insieme, di spietatezza e dedizione allo stesso tempo. Ma che soprattutto sa rivolgersi sempre indirettamente a ciò che osserva. Allo stesso modo di Perseo, che non posa i suoi occhi “sul volto della Gorgone ma solo sulla sua immagine riflessa nello scudo di bronzo”, in ciò offrendoci “un’allegoria del rapporto del poeta col mondo, una lezione di metodo da seguire scrivendo”: “è sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo – siamo alla Lezione sulla leggerezza adesso – ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello.”
Ecco. Prendere le distanze dalla realtà del mondo è forse il modo (l’unico, oggi?) per non nascondersi l’inevitabilità di portarne il fardello.
Gira e rigira è sempre a Calvino che mi riportano i passi che muovo in questi Giardini d’inverno, a conferma del fatto che “la leggerezza è qualcosa che si crea nella scrittura”, in una scrittura come questa, prova convincente e viva della “funzione esistenziale” che può avere la letteratura quando si fa “reazione al peso del vivere”.
È solo a questo punto che quel senso di conforto, e di pacata fiducia, di cui dicevo all’inizio mi si chiarisce, e posso individuarne la fonte: nella voce che trascorre in queste pagine. La voce che con parsimonia i personaggi fanno sentire è la stessa che guida la scrittura di questi racconti. Apparentemente svagata, mai assertiva, e pure decisa nella sua scelta.
Ancora Calvino, quello delle Città invisibili stavolta: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
È questo secondo modo che Paola Baratto ha scelto. Di qui viene la voce che ci ha dato questi sommessi, poetici minima moralia.

(Carlo Simoni – www.secondorizzonte.it)

RiassuntoRecensioni | Ordina