Presentazione ufficiale “Carne della mia carne”

 Comune di Brescia

Presentazione del romanzo di Paola Baratto  “Carne della mia carne” – Brescia, salone Vanvitelliano di palazzo Loggia

Intervento di Paolo Corsini (Sindaco di Brescia)
Intervento di Massimo Tedeschi (inviato di Bresciaoggi)
Intervento di Claudio Baroni (vice direttore del Giornale di Brescia)

 

Intervento di Paolo Corsini (sindaco di Brescia)

Sono particolarmente lieto di aprire questo nostro incontro salutando Claudio Baroni, vice direttore del Giornale di Brescia e Massimo Tedeschi, inviato di Bresciaoggi, ringraziandoli per aver accettato l’invito a partecipare alla presentazione del bel romanzo di Paola Baratto, “Carne della mia carne”, edito per i tipi di Manni.

All’autrice, innanzitutto, desidero formulare ancora una volta i miei più vivi complimenti. La sua scrittura ha davvero una capacità evocativa notevole, essenziale, nitida, sicura e disegna quello che, come ha rimarcato lo stesso Claudio Baroni nella sua recente recensione, può essere considerato un racconto lungo allo stesso tempo “piacevole ed inquietante, lineare ed intricato, illuminante ed enigmatico”.
E grazie a questa scrittura i temi esplorati da Paola Baratto divengono trama e fondale, esplorazioni non facili in quello che Massimo Tedeschi ha definito un lavoro compiuto sul testo e sulla parola “che ricorda quello di certi intarsiatori di pietra: mani esperte che levigano il loro materiale con attrezzi e sostanze abrasive via via più fini, sino ad arrivare all’impalpabile polvere di osso che assicura l’ultima politura, l’estrema lucentezza. Il risultato, nel testo della Baratto come nei tasselli degli intagliatori, è identico: disegno nitido, accostamenti che intrigano, iridescenze che seducono”.
Paola Baratto ha del resto ormai raggiunto piena confidenza con il romanzo, con una struttura letteraria non facile e che lei piega ad esigenze interiori plurime ed ogni volta diverse. Il primo romanzo, “La cruna del Lago – Tír na n Og”, pubblicato nel maggio 1994 da Ermione, si pone, per esempio, lungo il crinale del viaggio e dell’esplorazione di atmosfere irlandesi, stimolato dalla passione per la musica e le nebbie di quell’isola incantata.
Nel 1998 pubblica la fiaba d’ambientazione gallese “Mac y Moc cantava i sogni” in occasione dell’edizione inaugurale del festival Brescia Music Art, del quale è direttore artistico Omar Pedrini. Nell’ottobre dello stesso anno il suo secondo romanzo, edito da Zanetti di Montichiari, intitolato “Finisterre”: un racconto dai tratti surreali ambientato in Inghilterra, nel Dartmoor.
Nel novembre 2000 esce il terzo romanzo, “Di carta e di luce”, sempre per l’editore Zanetti e nel 2005 “Solo pioggia e jazz”, fra l’altro presentato alla città proprio in questa sede e che aveva come filo conduttore il trascorrere del tempo, di un continuum che attraversa le diverse fasi della nostra vita.
Ripercorrendo brevemente queste tappe, certamente è possibile leggere in controluce gli approdi della sua nuova opera.
Al centro, la metafora, anzi, per utilizzare le parole della stessa autrice, “le diverse potenzialità metaforiche, le interpretazioni non univoche”, in grado però di rimandare nel loro intreccio – al di là della trama romanzesca – ad una lettura disincantata, ma veritiera della società contemporanea.
Paola Baratto si misura dunque con un tema complesso, reso ancor più arduo dalla misura del romanzo, dalla necessità di procedere per accumulazioni di indizi, sino allo svelamento finale di una storia cupa e attuale – nonostante la nebbiosità costante dell’ambientazione – che si fa leggere come un omaggio alla grande letteratura, al piacere di scavare nel profondo dell’animo umano alla ricerca di deviazioni e paradossi di questo gruppo di personaggi che si ritrova unito nel lavoro precario, ma non nasconde quella che Paola Baratto definisce una realtà “dominata dal caos, dall’assenza di regole, una società estranea, scostante”, in cui non pare più possibile credere nelle possibilità del sogno.
Nelle pagine di Paola Baratto, come accade dei romanzi e nelle storie narrate con leggerezza ma, pure, con una scrittura quasi scolpita, levigata quel tanto che basta per giungere diretta, ove dietro la prosa si coglie il lavoro certosino, l’autrice non avanza nessun cedimento a toni crudi, si mantiene al riparo di gerghi splatter, ma lascia respirare il noir raffinato e rarefatto.
E l’enigma, come avverte Claudio Baroni, “può avere più di una lettura, ma non è l’orrore che interessa, solo la corrosiva, iperbolica metafora che la sfida contiene, tutta racchiusa a simboleggiare una società che con una serie di micro-precarietà mina le sue stesse fondamenta. È simbolo di una stagione che porta le generazioni a dilaniarsi l’un l’altra”.
Davvero pagine che sottotraccia restituiscono la metafora del nostro presente di una società tronfia e opulenta che si nutre di se stessa, e allo stesso tempo offrono uno spunto di riflessione sull’incertezza delle nuove generazioni che si svegliano ogni mattina già sapendo che il disagio è lì ad attenderle.
Così, il dilemma finale dei giovani alle prese con un lavoro precario, nel campo della gastronomia, ma che non nutre certamente il futuro, il rapporto fra le generazioni e col potere economico di chi tutto può decidere, avanza sino alle pagine finali, in cui ci si confronta con la lacerante proposta choc della richiesta di imbandire il banchetto funebre del grande e potente uomo protagonista del romanzo, all’insaputa degli ospiti, col proprio corpo variamente cucinato.
Da qui un’incessante ricerca di senso, la costante elaborazione della realtà, l’insistente messa a fuoco degli atteggiamenti dei vari personaggi che animano queste belle pagine, la quotidiana ridefinizione dei propri pensieri, delle proprie aspirazioni e speranze.
Prima di concludere, un’ulteriore annotazione. Ed è la sottolineatura della capacità dell’autrice di delineare con leggerezza, ma con estrema raffinatezza, i vari personaggi che animano queste pagine. Vite parallele, diverse età ed esperienze a confronto, percorsi biografici che si dipanano, si interrompono e riprendono dopo altri capitoli, sempre però, per dirla con un’espressione di uno di loro, “con la sensazione di vertigine di chi avanza in un terreno che cede”.
Vite che somigliano alla quotidianità dei giovani di oggi, alle prese con le incertezze del lavoro, il formarsi di una propria identità, le delusioni di una società in cui, come sbotta uno dei protagonisti, “è cambiato il vento, vige ora un vento generale, una smania collettiva di denaro”.
Davvero, le pagine di “Carne della mia carne” fanno meditare mentre scorrono con rapidezza nello scandagliare, con ironia e garbo, i fondali della nostra società, delle disillusioni e delle occasioni, che mette in gioco i sentimenti ed i convincimenti più profondi, dentro i giorni, scrive l’autrice, “in cui c’è sempre qualcuno che riesce a trarre qualche vantaggio dalle azioni più orribili; non è necessario che le commetta, basta che le lasci accadere”.
Un volume che aumenta nel ritmo e nelle attese, in un crescendo finale che diviene ancora una volta una corrosiva, metaforica riflessione sulla società odierna, in cui anche essere omissivi è corresponsabilità, ben addentro nel grottesco senso della fragilità e precarietà della vita, che sembra troppo spesso, per utilizzare ancora le parole di Paola Baratto, srotolarsi “sotto la recidiva d’un cielo accidioso e …/…/ dove solo nell’agire incessante il senso di incompiutezza /…/ pare avere tregua”.

Intervento di Massimo Tedeschi (inviato di Bresciaoggi)

Vorrei dire abbastanza brevemente alcune delle tante cose che mi sono piaciute di “Carne della mia carne”, non senza aver ricordato, prima, un piccolo episodio ch’è legato a questo libro e che mi fa piacere citare qui. Ed è il fatto che ho scoperto con piacere che esiste un piccolo, ma crescente “Paola Baratto fans club”, a cui ovviamente mi iscrivo d’ufficio. Lo dico perché m’è capitato quest’estate di recarmi alla libreria Rinascita (vedo la presidente in sala e la saluto), cercando il libro di un’autrice che aveva avuto un certo successo, ha vinto anche dei premi, Milena Agus, ch’era stata molto reclamizzata dalla stampa nazionale… Per dovere di lettore, insomma, cercavo questo volume… Il libraio di Rinascita, Valerio Berardelli, che per me è un faro, un punto di riferimento per i consigli di lettura che mi dà sempre, m’ha detto: “Guarda, se vuoi leggere un libro di una scrittrice veramente brava, ti propongo Paola Baratto”. Io l’avevo già recensita, quindi ho fatto un figurone dicendo che nel “Paola Baratto fans club” c’ero già…

E, però, voglio dire che chi legge questi libri, chi segue il lavoro di Paola, facilmente poi vive questo rapporto di fidelizzazione e di ammirazione verso il suo stile.
Alcune cose le ha già dette il sindaco e davvero vado per didascalie. La scrittura di Paola (lo dico e, quando mi capita, lo scrivo) è una scrittura che invidio, proprio per quel lavoro di finitura, di limatura finissima… Ho usato quell’immagine – e ringrazio il sindaco di averla evocata – perché vengo da un paese di scalpellini e di intarsiatori di pietra, che, quando debbono proprio raggiungere la massima finezza, usano la polvere d’osso per levigare le pietre, per renderle ancora più lucenti, per ricavarne tutte le iridescenze… A me sembra sia un po’ questo il lavoro che Paola fa: trattare con tale amore, tale delicatezza le parole da cavarne davvero le evocazioni e le capacità espressive più alte.
E poi c’è il grande tema, ma su questo non vorrei addentrarmi troppo, che aleggia in questo romanzo: questa grande metafora cannibalica, questo uomo straricco che decide di farsi cannibalizzare, di farsi cucinare, di farsi imbandire ai suoi parenti in un banchetto funebre. È un’idea geniale e terribile, ma che poi va trattata. E Paola la tratta veramente da par suo, senza scadere nel kitsch, ma anzi creando questa tensione, questo mistero: sarà, non sarà alla fine cucinato questo Oliviero Almonte, ch’è un po’ il Falstaff, il personaggio grandioso e negativo del romanzo…?
Ecco, dicevo: c’è lo stile e c’è questa grande metafora che domina. Ma vorrei dire alcune cose apparentemente periferiche, collaterali forse, se vogliamo minori, ma che secondo me fanno parte costitutiva del modo di scrivere di Paola e, credo, anche della bellezza di questo libro.
Innanzitutto, è una cosa che può sembrare strana… ma a me, devo dire, piace ancora trovarla nei libri. Mi piace trovare qualcuno che sa descrivere il dato atmosferico. E in questo romanzo, come negli altri di Paola, il dato atmosferico, il dato climatico è sempre presente, descritto. Le cose succedono in un certo clima, in un certo contesto atmosferico, sotto un certo sole, sotto una certa luce e riuscire a descrivere questi momenti, queste situazioni, queste luci è, credo, segno di una grande bravura, di un vero virtuosismo.
Di questo romanzo di Paola cito due o tre immagini, per rendere comprensibile e concreto quello che sto dicendo.
Un’espressione l’ha già evocata il sindaco: “La recidiva di un cielo accidioso”. C’è dentro tutto il grigio di certe giornate uggiose che conosciamo. Oppure il tramonto descritto così: “Quello era sempre il momento in cui tutto era viola, un soffuso minuto color malva”. Fermarsi a descrivere con parole nuove un tramonto, secondo me, è una cosa che dà una fragranza e una bellezza a questi romanzi ch’è assolutamente unica. Oppure: “Quell’anno giugno fu un mese di splendore senza riserve”. Un giugno di splendore senza riserve. Ripeto: per me uno scrittore che sa ancora descrivere il dato atmosferico, e lo fa con queste parole, veramente merita di essere applaudito.
Sto zoomando. Sono partito dal cielo, adesso restringo su un altro aspetto che mi piace straordinariamente di questo libro. C’è una descrizione di città, un’immagine di città. E, soprattutto, c’è un’immagine di una certa periferia di città. Cito alcune righe e anche qui, forse, Paola fa capire molto meglio di me quello che voglio dire. È la descrizione della periferia in cui vengono ad abitare questi ragazzi, che poi iniziano a guadagnarsi da vivere cucinando per le famiglie benestanti: “Da tempo il reticolo di vie sviluppato ad ovest aveva rinnegato la periferia, ambito al centro. Ma non ci sono abiure senza fugaci ripensamenti, mutamenti senza passaggi ibridi. Così, lì attorno erano rimasti angoli ancora indecisi, incompiuti, scampoli urbani senza avvenire e senza altro scopo che quello di svelare, seppur per il frangente di un’occhiata distratta, l’antica vocazione alla marginalità e al silenzio”. Sembra una periferia di Sironi descritta con parole mirabili.
C’è il cielo, ci sono ambiti riconoscibili di città, ci sono luoghi più ristretti. Continuo a zoomare, seguendo il lavoro che Paola fa sul suo romanzo. Ci sono le descrizioni degli ambienti fisici, degli ambienti chiusi in cui si svolgono i fatti del romanzo. La prima descrizione, bellissima, riguarda la casa in cui vanno a vivere i ragazzi: una casa vecchia, abbastanza decadente, una casa che si presenta con un giardino scarmigliato. Viene descritta come “una villa color tramonto”, viene descritta ancora come “una casa piena di penombre”. Tutto si gioca in questo chiaroscuro soffuso in cui si muovono i ragazzi.
Poi c’è la villa Almonte, la villa della famiglia ricca. Tutt’altro ambiente. Fra l’altro, è singolare che questa villa di ricconi che sorge nella zona residenziale della città, misteriosamente, poi, sia appoggiata in una fossa. Ci avvicina insomma verso qualcosa di profondo, di nascosto, di oscuro che incombe nella vita di questa famiglia. Villa Almonte presenta – parole di Paola – una architettura gotico-vittoriana e una mobilia “cupamente lussureggiante”. Ripeto: “Una mobilia cupamente lussureggiante”. Non so se Coppedè, Gaudí o chi altri avesse firmato questi arredi. Ma è certo che le immagini, le descrizioni di Paola fanno entrare nel vivo di un ambiente, di un’atmosfera, di una situazione.

L’altra cosa che trovo straordinaria – e mi fermo su questo aspetto, rispetto alle tante cose che mi ha suggerito il libro e alle emozioni che mi ha dato, perché è un dato che trovo assolutamente nuovo, conoscendo la produzione precedente di Paola – è la descrizione di questa famiglia di ricchi. Noi ci eravamo già trovati qui, il sindaco l’ha ricordato, a parlare di “Solo pioggia e jazz”, che era un romanzo giocato sul pianissimo, sulle atmosfere soffuse, su movimenti quasi impercettibili. E invece con la descrizione dei personaggi della famiglia Almonte siamo di fronte a pagine di tutt’altro registro stilistico, ma di una piacevolezza, di una godibilità, di una bravura e di un virtuosismo descrittivo da parte di Paola assolutamente notevoli. Perché – uso quest’immagine per cercare di dire l’impressione che mi ha fatto – se Paola spesso fa ritratti davvero acquarellati, con colori molto tenui, capaci di cogliere tutti i giochi di luce e di chiaroscuro di alcune personalità, qui veramente sembra che nella descrizione il pennello suo sia stato intinto nell’acido: cioè, saltano fuori figure così paradossali, così eccessive, ma così vicine al nostro vissuto (i ricchi, gli arricchiti che accumulano, che si affermano, che vivono queste dinamiche conflittuali all’interno della famiglia, questa guerra cannibalica per affermarsi rispetto agli altri componenti del nucleo familiare) da essere assolutamente straordinari.
Quindi, accanto al racconto della vita di questi giovani precari, ci sono due, tre pagine dedicate ad ognuno dei componenti di questa famiglia. E anche qui l’immagine che ne esce è veramente, secondo me, straordinaria, anche solo per i nomi che Paola sceglie di affibbiare. Perché c’è questa specie di olimpo borghese, ma borghese arricchito e aggressivo e rampante, ch’è una specie di corte rinascimentale che giostra tutt’attorno a Oliviero Almonte. E i suoi eredi si chiamano Amaltea, Achille, Artemide, Lucrezia, Ares. È veramente un olimpo, quasi un olimpo rovesciato, un olimpo al negativo, con tutte le dinamiche, le sfide e le competizioni che lo attraversano. Qui non sto a ricordare tutti i personaggi. Ma devo dire che, su tutti, quella che viene descritta in maniera straordinaria e che sembra uscita dalle nostre cronache e dai nostri settimanali è la nipote che vuole emergere nella televisione, Lucrezia. Non so se l’assonanza con Lucrezia Borgia, se l’evocazione sia voluta o casuale: ma lei è veramente una cortigiana, che, attraverso il sistema delle televisioni, vuole costruire la sua affermazione. È quella che sostiene (e ne è convinta) che una banalità, purché microfonata, è più importante di qualunque saggezza pronunciata in maniera solitaria e che non sia quindi pubblicizzata attraverso le televisioni.
Queste pagine, quindi, le trovo assolutamente straordinarie nel descrivere questi nouveau kitsch, queste nuove figure kitsch: ma rampanti, emergenti. E devo dire che – sia per la caratterizzazione umana sia per la descrizione che Paola ne fa – ho trovato una Baratto completamente nuova e che mi ha divertito molto e che mi è piaciuto molto scoprire.
Attorno a questa corte, naturalmente, ci sono i cortigiani. E anche qui due figure interessanti, due figure che ognuno di noi associa ad aspetti di persone che ha conosciuto nella sua vita. Una è Loretta Brancaia, una signora che gravita attorno alla famiglia lavorando nel “giocattolo” di Almonte, la fondazione culturale. E poi c’è il consigliere o il consigliori, Virginio Sparvo, che è quello che, come dire, sta più vicino al cuore di tenebra dello Zeus di questa famiglia e ne conserva i segreti, ne custodisce e ne applica le volontà.
Ultimissime cose che voglio citare, perché sono da antologia.
Se vi capita, andate a pagina 112: perché in due pagine Paola ci descrive cos’è la civiltà del cibo della nostra contemporaneità: che senso ha trovarsi a mangiare assieme, che valore ha il cibo in una società sazia. Perché noi il problema della fame non l’abbiamo. E questo brano è un piccolo distillato, non so se sociologico o filosofico. Comunque, sono due pagine straordinarie: e, leggendole, uno dice “ecco perché tante volte cerco o mi trovo con gli amici per sedermi a tavola, ecco perché è quello il luogo in cui si condividono dei momenti”. Pagina 112: mi permetto di segnalarla, come se fossi un critico gastronomico, con tre forchette.
Una cosa invece posso citare, perché è una frase brevissima. Mi è rimasta impressa perché, come forse qualcuno di voi fa, io mi annoto le frasi particolarmente belle che leggo, illudendomi poi una volta tanto di poterle utilizzare nei miei articoli, cosa che mi capita rarissimamente. Fra le tante frasi belle che scrive Paola – io lo saccheggio, il suo libro, per queste frasi – ce n’è una che mi ha colpito. La cito per dire che Paola è brava anche a cesellare aforismi; ha questa capacità di levigar le parole per cui tutto si calibra e tutto si tiene. Ecco la frase: “Crescere è un processo per sottrazione, più conosci meno certezze ti restano”. Secondo me, è di una bellezza e di una profondità assoluta. “Crescere è un processo per sottrazione, più conosci meno certezze ti restano”. Una Paola capace anche di aforismi.
Noi una certezza, dopo questa lettura, l’abbiamo. Ed è che siamo in presenza di una brava scrittrice, di una grande scrittrice. Ed abbiamo anche la certezza che il prossimo libro che ci darà sarà altrettanto bello e ancora più appassionante.
Complimenti, Paola.

Intervento di Claudio Baroni (vice direttore del Giornale di Brescia)

Nei giorni scorsi – quando ho ripreso in mano “Carne della mia carne”, per vedere se alcune sensazioni provate la prima volta trovavano conferma – mi sono accorto ch’era la terza volta che stavo leggendo questo libro.
Non so a voi, ma a me capita abbastanza raramente di leggere tre volte un romanzo. D’altra parte, la prima volta l’avevo letto con il freno a mano tirato.
Quando me lo avevano consegnato fresco di stampa, mi era stato detto: “Leggilo lontano dai pasti”. Lì per lì non avevo capito bene quale fosse il riferimento. Poi ho visto il foglio di presentazione e ho guardato il retro di copertina, che non faceva mistero di cosa si stesse parlando. Così, cominciando a leggere, m’aspettavo davvero la fregatura. Mi dicevo: “No, non è possibile che la Paola Baratto che conosco io, quella che ha una scrittura così limpida, una costruzione così levigata, sia scivolata lì. Non è possibile che mi giochi uno scherzo di questo genere”. Pian piano andavo avanti. E lo trovavo, questo libro, particolarmente accattivante, in alcuni punti davvero sarcastico. E continuavo a domandarmi: “Dove sta la fregatura? Magari adesso, dietro la curva…”.
E invece no. Il romanzo l’ho letto tutto con il freno a mano tirato, ma la fregatura non c’è. Nel senso che questa del banchetto funebre è davvero una grande metafora. E viene affrontata con un’abilità incredibile, perché vi è la preparazione “a qualcosa” che, poi, si svolge in un paio di pagine e al di fuori della scena, al di fuori della stanza del “misfatto”.
Quindi, già allora, alla fine, mi sono detto: “Beh, dopo essermelo letto con il freno mano tirato adesso me lo rileggo”. Nel senso di “adesso – se mi permettete il gioco di parole – me lo gusto”. E ho cominciato a (ri)leggerlo cercando di trovare altri filoni. Ne ho trovati un paio, che vorrei condividere con voi questa sera.
Il primo riguarda la costruzione di questo testo. Testo che appare così naturale, così scorrevole, così lineare… eppure ha una costruzione e un’architettura particolarmente complicate.
Tanto per cominciare, è costruito come una partitura musicale. All’inizio c’è una sorta di piccola overture, che dà il “la”, che lascia intravedere i temi dell’opera e che sarà ripresa alla fine uguale. Poi ci sono i tre tempi. Il primo è in forma di contrappunto. A ogni passaggio che avviene attraverso la narrazione del gruppo di giovani, e della storia ad essi legata, si contrappone un medaglione degli Almonte, quasi sempre rivissuto in un banchetto domenicale: perché quello è il momento in cui si manifesta la famiglia, con i suoi meccanismi e i suoi rapporti; è il momento che al capostipite fa pensare che proprio su quel banchetto può costruire il suo gioco e la sua follia, l’esasperato senso di onnipotenza (al punto da diventare egli stesso alimento della sua famiglia). La seconda parte costruisce il meccanismo del racconto: parla dei ragazzi, di come iniziano l’attività di catering – per cercare di sbarcare il lunario – assieme a quest’altro personaggio molto importante che è l’adulto, il quale ha affittato ai ragazzi la villa ed è quello che, poi, riceverà la folle richiesta del banchetto funebre. Il terzo tempo è quello del dramma e della commedia, il tempo in cui la grande sfida si sviluppa.
Una partitura assolutamente rigorosa, quindi. Una costruzione geometrica. E la si coglie se la si guarda nell’insieme. Qui mi viene in mente Elias Canetti, il quale diceva che lo stile più bello è quello che non si vede: bisogna fare uno sforzo, per andare a scoprirlo.
E questo è il primo filone. Il secondo ragionamento riguarda la collocazione di quest’opera all’interno del lavoro di Paola Baratto. Sono convinto che la Baratto, come moltissimi scrittori, in realtà stia costruendo e scrivendo un unico grande romanzo, un unico grande libro. Non come gli autori seriali: quelli costruiscono un mondo e dentro fanno giocare i loro personaggi (anche se alcuni sono bravissimi: penso a Camilleri, che mi è particolarmente caro). Ma quello è – appunto – un mondo, non è un grande romanzo. Il grande romanzo ha una unitarietà che non è nel mondo e nell’ambiente; ha un’unitarietà che è nella lettura generale. Io condivido il giudizio del critico de “La Stampa” Sergio Pent, che nel recensire “Carne della mia carne”, diceva, fra l’altro, che il romanzo di Paola Baratto che gli è particolarmente caro è “Di carta e di luce”. Quello è certamente il libro che dà una visione più globale del mondo che Paola Baratto sta raccontando. È la rappresentazione della crisi dell’Europa, la crisi di una società intera. Offre il senso del panorama che sta sullo sfondo di ogni opera di Paola Baratto.. Ma all’interno di questo panorama – con l’Europa che viene attraversata e presentata nelle sue varie sfumature – c’è una serie di focus su alcuni argomenti particolari.
“Solo pioggia e jazz” era il discorso sul tempo. “Finisterre” era il discorso sulla nebbia che ci circonda e non ci aiuta a comprendere quello che ci sta attorno. “Carne della mia carne”, secondo me, riporta il ragionamento al primo romanzo della Baratto, a “La cruna del lago”.
“La cruna del lago” – molti dei presenti lo conosceranno, ma per chi non l’avesse letto faccio un brevissimo… riassunto delle puntate precedenti – è il racconto di come finisce la storia di un gruppo di giovani (sostanzialmente bresciani). Finisce in Irlanda, con il più sveglio di loro che manca un appuntamento, si nasconde, non c’è più… E alla fine cerca di trovare la porta che lo condurrà al riscatto attraverso la cruna del lago e seguendo un’antica leggenda.
Quella era la storia della mia generazione. La generazione di quelli che avevano visto i fratelli maggiori dare una spallata ad una serie di certezze e viveva ancora sull’onda del sogno di poter cambiare il mondo, di poter cambiare la società. Era un sogno vago. In qualche modo era l’idea che con i buoni sentimenti si potessero cambiare tante cose; era il “fate l’amore non fate la guerra”, “i figli dei fiori”… Tutta una serie di cose che, tuttavia, alla fine avevano incontrato il fallimento. Si arrivava così al senso del vuoto, di un sogno che stava svanendo. Ma anche al tentativo di un riscatto personale, con la convinzione che c’era almeno una possibilità per ognuno di noi di passare per la cruna del lago e di uscire dall’altra parte.
“Carne della mia carne” è il racconto dei nostri figli, di una generazione che non ha più un sogno, che non crede più nella possibilità di cambiare il mondo né con i buoni né con i cattivi sentimenti. È la generazione di un precariato che mina alla radice le sue prospettive.
Se l’emblema della nostra generazione, de “La cruna del lago”, era la “comune”, il luogo in cui la gente s’incontrava assieme ed assieme faceva qualcosa, l’emblema di questa generazione è esattamente l’appartamento affittato stanza per stanza. È vero che si affitta l’appartamento in gruppo, ma ciascuno vive nella propria stanza, ciascuno ha una sua dimensione, il rapporto è ridotto a poche cose. È anch’esso precario e di scarsa prospettiva: non tanto nella durata, ma, persino, nell’intensità.
In questo gruppo di ragazzi, ognuno ha un suo piccolo desiderio, ma limitato. Il rapporto tra loro è di solidarietà, ma anch’essa limitata. Nessuno di questi ragazzi pensa di costruire insieme agli altri qualcosa di importante.
È la rappresentazione forse più fedele della nostra società. In fondo in fondo, ognuno cerca di badare a se stesso. E suona un po’ come una beffa il fatto che questi ragazzi – ai quali abbiamo rubato un progetto – di “contratti a progetto” siano costretti a vivere. Suona un po’ come una beffa, ma così è.
Quando ho riletto questo romanzo mi sono domandato se davvero si chiudeva un cerchio, se davvero si completava un ciclo e al di là di questo non ci fosse più niente da dire. Nell’intervista di Paola Baratto rilasciata a Paola Carmignani questa sensazione l’ho avuta. Ma spero proprio che non sia così.
Perché? Perché anche questo libro, come gli ultimi, lascia due sensazioni. La prima è che tutt’attorno un po’ di nausea montante ci sia: c’era in “Solo pioggia e jazz”, c’era nella nebbia di “Finisterre”… Tuttavia, alla fine questa sensazione di nausea non prevale. Perché i romanzi di Paola Baratto non si chiudono, sono sempre storie aperte, s’intravede la possibilità di una strada nuova. Questa possibilità non mi sentirei di definirla speranza. Mi sentirei di definirla, piuttosto, così: quella di una scrittrice che ha una grande curiosità rispetto al mondo che le sta attorno, una capacità notevole di descriverlo, di comprenderlo, di scavarlo… E quindi, rimane la convinzione che la storia non è finita, che la storia avrà un passo in più. Io spero che il passo in più sia il prossimo romanzo.

 

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